L’oggetto dell’essere
Applicare ad una persona il verbo essere seguito da un sostantivo o da un aggettivo ha implicazioni vaste e profonde di cui siamo normalmente inconsapevoli.
Noi diciamo (o pensiamo) infatti comunemente frasi come “io sono (un) xxxx” (per esempio, “io sono un impiegato”, o “io sono libero” o “io sono un artista”) senza chiederci chi abbia stabilito quell’identità o qualità, né chi ce l’abbia attribuita, né quali siano le conseguenze di quell’attribuzione.
Ad una prima riflessione mi viene in mente che le identità e le qualità di un essere umano hanno senso solo in un contesto sociale. Infatti a un individuo totalmente e irrimediabilmente isolato dagli altri non verrebbe mai in mente di pensare “io sono (un) xxxx”, anche perché quell’attribuzione non potrebbe essere condivisa e pertanto non potrebbe avere alcuna conseguenza.
Mi viene poi in mente che le identità e qualità di un essere umano hanno senso nella misura in cui sono (o possono essere) riconosciute dagli altri. Infatti, è inutile credere di “essere (un) xxxx“ se si è certi che tale identità o qualità sia invisibile agli altri e lo sarà sempre. Possiamo dunque dire che noi siamo ciò che gli altri riconoscono (o riconosceranno) in noi.
Cosa significa xxxx (cioè l’oggetto dell’essere) e come può essere istanziato? Per rispondere conviene ricorrere all’idea (di Gregory Bateson) che non possiamo conoscere le cose (né le persone) in sé, ma solo le relazioni tra le cose (o le persone). L’oggetto dell’essere è dunque una relazione, e precisamente una relazione sociale.
Essere = appartenere
Per quanto sopra, ritengo che l’oggetto dell’essere sia un ruolo sociale assunto dal soggetto o una categoria sociale a cui egli ritiene di appartiene (o a cui gli altri ritengono che egli appartenga). In termini più generali, e considerando il ruolo una sorta di categoria, direi che l’oggetto dell’essere sia costituito dall’appartenenza a certe categorie.
Possiamo dunque, quasi sempre, sostituire il verbo essere con il verbo appartenere. Per esempio, dire “io sono libero” equivale a dire “io appartengo alla categoria (sociale) delle persone libere”. Dire “io sono un commerciante” equivale a dire “io appartengo alla categoria dei commercianti”. Dire “io sono stupido” equivale a dire “io appartengo alla categoria degli stupidi”. Dire “io sono italiano” equivale a dire “io appartengo alla categoria degli italiani”.
Ne consegue che prima di poter dire “io sono (un) xxxx” occorre definire la categoria xxxx. Per esempio, prima di dire “Tizio è stupido” occorre definire la categoria degli stupidi, e prima di dire “io sono libero” occorre che sia definita la categoria delle persone libere.
La definizione delle categorie sociali è, ovviamente, un processo sociale. Quando un individuo nasce, le categorie sono già definite da coloro che sono venuti prima di lui, e lui deve solo apprenderle, non potendo inventarne di nuove (almeno finché non diventi un’autorità intellettuale, politica o religiosa).
Le definizioni delle categorie usate dalla gente comune sono piuttosto imprecise e vaghe. Pochi sono infatti coloro che consultano un vocabolario prima di usare certe parole. Si tratta normalmente di generalizzazioni e semplificazioni che ognuno può interpretare a suo piacimento. Ne consegue che le identità e le qualità sociali che ci attribuiamo o che gli altri ci attribuiscono sono sempre soggettive e grossolane.
Appartenere = imitare
Come abbiamo visto nel capitolo Apprendimento, imitazione, empatia, conformismo, l’apprendimento è basato sull’imitazione. Ciò vale anche per l’apprendimento delle categorie sociali. Attraverso l’imitazione noi non soltanto apprendiamo cosa siano tali categorie, ma anche come comportarci in modo da appartenere a quelle a cui desideriamo appartenere. D’altra parte desideriamo appartenere a certe categorie perché ad esse appartengono le persone che desideriamo imitare, come insegna René Girard.
Essere = imitare
Se Essere = appartenere, e appartenere = imitare, allora essere = imitare.
Come conseguenza di queste equazioni, potremmo dire che l’identità di un individuo consista nell’appartenere alle categorie di persone che ha imitato e/o che sta imitando con successo.
Alla luce di quanto detto sopra, una frase come “essere se stessi” (usata in esortazioni quali “sii te stesso”) non ha molto senso in quanto non si può essere qualcosa senza appartenere a qualche categoria, ovvero senza imitare qualcuno. Il problema non è dunque se imitare o non imitare qualcuno, ma chi imitare.
D’altra parte, la scelta delle persone da imitare può essere problematica e dar luogo a conflitti esterni e interni. Infatti, se uno appartiene ad una certa comunità, i membri di questa si aspettano che lui imiti persone della stessa comunità, e non di altre. Allo stesso tempo uno può essere combattuto tra il desiderio di imitare certe persone e quello di imitare certe altre incompatibili con le prime, in quanto appartenenti a comunità antitetiche.
Voler essere diversi da tutti gli altri, cioè non voler imitare nessuno, è un errore che può causare disturbi mentali, dato che è impossibile interagire con altre persone senza imitare qualche modello di comportamento. Per quanto riguarda, invece, la scelta dei modelli da imitare, lo studio delle scienze umane e sociali e la narrativa ci permettono di ampliare e approfondire la conoscenza di molti diversi modelli di umanità, consentendoci di scegliere quelli da imitare più adatti alla nostra personalità.
In ogni caso conviene evitare, per quanto possibile, di attribuire (a se stessi e agli altri) identità e qualità sociali ben definite, dato che queste sono soggettive, riduttive e limitative della libertà di cambiare i modelli di comportamento da imitare. D’altra parte una persona la cui identità sociale è indefinita e misteriosa può avere un certo fascino.
Prossimo capitolo: Differenze umane.